Confessione, dichiarazione e fattispecie legali, in particolare, l’usucapione. Quid iuris?

Ci si è chiesti se la dichiarazione con cui una parte riconosca l’avvenuta usucapione a favore dell’altra, su di un proprio immobile, esoneri il giudicante dall’effettuare le ulteriori verifiche circa la reale sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di usucapione, in particolar modo quando la stessa dichiarazione venga giuridicamente qualificata come confessione e cioè quando non ammetterebbe nemmeno la prova contraria. In altri termini, si è posto il problema di come considerare la dichiarazione resa, di quali siano i suoi effetti e se possa, in definitiva, rappresentare per il giudicante una prova legale con tutte le conseguenze del caso. Parte della soluzione viene già data dalla Giurisprudenza, la quale ritiene che “Una dichiarazione è qualificabile come confessione ove sussistano un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte, ed un elemento oggettivo, che si ha qualora dall’ammissione del fatto obiettivo, il quale forma oggetto della confessione escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante e, al contempo, un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione. Ne consegue che non riveste valenza confessoria, in ordine al protrarsi del possesso per il tempo utile al verificarsi dell’usucapione, la scrittura con cui una parte si impegni a far acquisire all’altra un determinato immobile, o a seguito di sentenza dichiarativa di usucapione in suo favore o per contratto, rivelando tale accordo aspetti di incompatibilità logica tra il pattuito trasferimento a titolo derivativo ed il pregresso acquisto a titolo originario e collocandosi sul piano volitivo, anziché su quello ricognitivo” – Cass. Civ. n. 25.3.2013. Sebbene la fattispecie concreta prospettata dalla citata sentenza sia leggermente diversa, dal principio enunciato si possono formulare alcune considerazioni di ordine generale, valevoli anche nel differente caso prospettato.

Anzitutto, se è vero che l’usucapione è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, ad effetto legale, ne deriva che l’usucapione, in quanto tale, è un istituto sottratto a qualsiasi convenzione stipulata tra le parti: e ciò in quanto il perfezionarsi della fattispecie presuppone sempre e comunque l’esistenza di un valido titolo di acquisto a monte, ovverossia l’accertamento e la validità di tutti i requisiti normativamente previsti. Una dichiarazione resa da una parte, non solo non potrà essere qualificata come confessione dotata di valore probatorio incontrovertibile, ma la stessa non potrebbe nemmeno costituire, quale atto negoziale di accertamento, un valido titolo di acquisto.  La mera ricognizione, dunque, se non sorretta da ulteriori elementi, non è tale da escludere la valutazione dei presupposti previsti ex lege.

Diversamente ragionando si arriva alla conclusione – che dovrebbe far tremare un qualsiasi operatore del diritto – per cui un atto negoziale di riconoscimento superi e/o supererebbe l’accertamento dei requisiti normativi stabiliti per la singola fattispecie in esame. In altri termini, se si ammettesse che tale dichiarazione possa sostituirsi agli elementi costitutivi di qualsiasi fattispecie legale – e non solo a quella dell’usucapione – si finirebbe per autorizzare un qualunque soggetto – terzo o parte –  pure privo di cognizione delle nozioni giuridiche utilizzate nella dichiarazione stessa a sostituirsi alla valutazione del giudice di merito in relazione all’effettivo accertamento dell’avvenuto effetto legale: con il che basterebbe al giudicante assumere la relativa dichiarazione senza indagare sulla reale esistenza degli elementi costitutivi richiesti dal legislatore.

È chiaro che il nostro ordinamento non permette una distorsione probatoria di questo genere, tanto più che verrebbero meno in pochi secondi di ragionamento e la certezza del diritto e qualsiasi principio di tutela del contraente debole. Due cardini del nostro ordinamento rischierebbero di essere spazzati via per mano di un solo ragionamento, tautologico e frettoloso, per non dire “comodo”.

Ciò che non è e non può essere, è dimostrato in casi similari che il nostro ordinamento ci offre, per analogia di ragionamento ermeneutico.

Si pensi, ad esempio, alla dichiarazione di operatore qualificato in materia finanziaria: le dichiarazioni contenute in essa sono idonee a fornire una prova piena solo ove queste non incontrino contestazioni della controparte derivanti dalla difformità del contenuto della dichiarazione rispetto alla situazione reale. Infatti, “la dischiarazione scritta di cui all’art. 31 del reg. Consob. […] costituisce esclusivamente un elemento probatorio e non già costitutivo in ordine al possesso della suddetta specifica competenza ed esperienza, elemento probatorio del quale giudice può tenere conto nell’assumere la propria decisione” – Corte d’Appello di Torino, 26.9.2011. Allo stesso modo, in tema di IVA, l’istanza di rimborso non integra il fatto costitutivo del diritto, ma solo il presupposto di esigibilità del credito per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso stesso, avendo l’Amministrazione, in ogni caso, il dovere-potere di controllare la veridicità della dichiarazione – Principio espresso da Cass. 22.2.2017, n. 4559. Se tali principi valgono in tema di diritti tendenzialmente disponibili per quanto attiene alla loro costituzione, quali diritti di credito e relativi rapporti obbligatori, a maggior ragione essi trovano applicazione anche in tema di diritti reali, la cui costituzione segue regole precise e ben determinate, impermeabili a qualsiasi influenza volitiva.

La conclusione è e non può essere che una solamente: le parti non potranno mai sostituire l’assenza dei presupposti di legge con un atto volitivo, finalizzato a riconoscere l’esistenza di un diritto reale di proprietà a favore di un soggetto, a prescindere dai summenzionati presupposti. Sarà quindi, compito del giudicante non fermarsi all’apparente dichiarazione resa dalla parte, ma vagliare l’effettiva esistenza di quanto le norme gli impongono ai fini della nascita e della sussistenza di qualsiasi fattispecie di stampo legale.

Ma anche nella non creduta ipotesi in cui si volesse realmente attribuire valore di confessione ad una dichiarazione di tal tipo, si dovrebbe criticare ragionamento e conclusione, stante il fatto che “la confessione, secondo la nozione di cui all’art. 2730 c.c., deve avere per oggetto fatti obiettivi e non opinioni o giudizi” – Cassazione civile 16.06.1990 n. 6059. Ne consegue che il suo valore probatorio non copre, e non può coprire, valutazioni o opinioni del dichiarante che, come tali, esorbitano dall’oggetto proprio della confessione medesima. Se ne può dedurre che, mentre il requisito temporale potrebbe anche, in astratto, essere oggetto di confessione in quanto costituisce un elemento oggettivo, altrettanto non può dirsi per il requisito dell’animus che costituisce un presupposto puramente soggettivo, che, in quanto tale, può essere oggetto di vaglio esclusivamente da parte del giudice, la cui valutazione non può essere sostituita da una pretesa confessione effettuata dalla parte dichiarante in quanto la stessa non esonera in alcun modo il giudicante dall’effettuare gli opportuni accertamenti in merito.

In conclusione, è da escludere che qualsiasi fattispecie legale, specialmente nel caso di usucapione, possa essere oggetto di atti volitivi finalizzati ad escludere ex ante un controllo del giudice circa l’effettiva esistenza dei requisiti costitutivi richiesti espressamente dal legislatore. Ragionando altrimenti, si finirebbe per porsi in aperto contrasto con principi cardine del nostro ordinamento quali, la certezza del diritto e la tutela del contraente più debole.

 Simona Siotto

Avvocato Cassazionista